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Valentina Procopio: il corpo che abito

“Non c’è nessun inizio. Sono stato generato come tutti, il resto è sola appartenenza” scrive all’inizio di Pseudo Émile Ajar (pseudonimo di Romain Gary). Gli estremi, nascita e morte, sono uguali per tutti. Nessun inizio, di fatto, e nessuna fine. Nessuna comunque che valga la pena raccontare. Per Gary, si sa, ha senso di esistere solo quello che in un romanzo non sfigura. L’appartenenza di Gary è l’appartenenza a una specie, la suddivisione in gruppi di ogni ente, uomo, oggetto, animale. Valentina Procopio, nel suo progetto il corpo che abito ci offre una vera e propria ballata dell’appartenenza: “Ogni individuo ha dentro di sé un romanzo di famiglia e ogni famiglia ha una sua storia da raccontare”. Per parlare della forza di questa storia che ci lega a luoghi, persone, memorie, un linguaggio solo non basta. L’indagine di Valentina è articolata. Passa per testimonianze, fotografie di archivio, immagini scattate e persino disegni, cose fatte con la carta e con le mani. Non è forse l’unico modo per fare i conti con la realtà maneggiarla più che si può?

Il corpo che abito, per dirla con le parole dell’artista,“è un processo, una ricerca, è una presa di coscienza delle proprie fragilità e imperfezioni”. È lacerare la storia per comprendere come starci in mezzo, come trovare il proprio spazio. “Ciò che viene taciuto alla prima generazione” scrive la psicanalista Françoise Dolto, “la seconda lo porta nel corpo”. La memoria si fa fisica, carnale, concreta e a un tempo inspiegabile. Crea mistero, necessità di cercare e risolvere. Quello che non viene raccontato, l’occulto delle generazioni, diviene eredità materiale irrazionale, finisce per costituire l’intimo patrimonio di una famiglia, ne diventa il collante. Persone e generazioni si appiccicano insieme, un filo infrangibile le lega.

“Da qualche parte, attraverso le generazioni, nella mia famiglia esiste un equilibrio, un libro di crediti e meriti che cerco di rivelare. È inevitabile. Voglio trovare il coraggio necessario per affrontare gli obblighi e le colpe ereditate” scrive Procopio. La sua storia è anche una storia di sofferenza, trauma, ricerca di una ragione: “Questa è la storia del suicidio di mio nonno, di molti non detti familiari, questo è il mio tentativo di prenderne coscienza”. Indagare il passato per trovare il proprio posto. Ci troviamo ad abitare in un corpo fatto dei pezzi lasciati da chi ci ha preceduto, e così è per l’anima. Ognuno crea la sua storia, ma per andare bisogna capire dove si sta.

Ogni famiglia ha il suo lato lasciato oscuro, ogni generazione fatica ad affrontare ed elaborare apertamente traumi che sono troppo vicini nel tempo. Tocca quindi a chi viene dopo raccogliere i cocci, far combaciare i pezzi nell’illusione che ricostruendo scompaia la sofferenza. La sofferenza è però gran parte di quello che ci tiene insieme e rende possibile una reale condivisione nel tratto di storia che abbiamo da percorrere insieme.

I progetti fotografici sul genere ‘io e la mia famiglia’, c’è poco da fare, generalmente annoiano. Annoiano perché spesso sono semplificati allo stremo, cronache del nulla. C’è poi chi, come Procopio, riesce a problematizzare anziché semplificare la storia personale traducendola in immagini. Troviamo teste mozzate, bambini sconosciuti, quaderni a quadretti e disegni evocativi, spazi svuotati dal significato. Soprattutto, scompaiono l’immediato, il facile, l’ovvio. Richiamano, tutti questi elementi, un terreno che è da un lato peculiare e inaccessibile – in quanto proprio dell’intimità dell’artista – e dall’altro inevitabilmente e profondamente comune, fatto di una serie di gesti e dettagli, di una serie di caratteri che sono distintivi di un certo tempo, ma di nessun luogo in particolare, in cui non possiamo che riconoscerci. Libero dalla presunzione, senza ego-referenzialità, il lavoro sullo spazio e sulla storia della famiglia diventa finalmente arte in senso completo.

Valentina Procopio nasce a Catanzaro nel 1988. Nel 2016 ottiene un master in fotografia alla scuola Il Cerchio dell’Immagine di Reggio Calabria. Prosegue frequentando una serie di workshop. Nel 2018 co-fonda Effe, un collettivo che si occupa della promozione culturale fotografica nel territorio calabrese. A novembre del 2019 vince la borsa di studio per il master di fotografia documentaria “divergent visions” alla D.o.o.r. Factory di Roma, e nel 2020 diventa co-fondatrice di Zero Arte, uno spazio dedicato ai creativi per lo sviluppo della produzione artistica. La sua pratica si fonda su sperimentazioni, contaminazioni e conversazioni che danno vita a una narrativa basata su mixed media, fotografia analogica e digitale.

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